Tentenna e muori!
Tentenna e muori!
Sento la sua voce familiare che mi precede e penso che
il verbo tentennare è bello, è con il verbo della fine che
ho dei problemi. Ve lo sto dicendo per una ragione e la
ragione è che dopo diciannove anni sono qui e qualcosa
la devo dire. Io ho tentennato, quella sera ho tentennato
moltissimo. Ma il verbo finale non si è coniugato su di
me. Sono qui e non da qualche altra parte, mi vedete?
E tu, mi vedi?

Non avevo più fiato, le gambe si muovevano senza
il controllo della mente, quella era affollata da
immagini di me con mio padre, di tutte le volte
che ce l’abbiamo sempre fatta. Tipo quella volta
al negozio di coltelli, lì ho avuto paura sul serio.
Per un istante ho visto anche l’altalena e la mia voglia
di essere lì. Invece correvo e tentennavo, tra le urla
di mio padre che di colpo si sono fatte silenzio. Sono
rimasto solo, in un cimitero di ferro e sangue che scorre.

C’era un silenzio così assordante che per non sentirlo
ho iniziato ad urlare io. Non so quanto tempo sia
passato prima che mi sentissero, non so esattamente
cosa sia successo e no, signori, non so neanche se
il nome di mio padre è quello che ricordo. Ma so che
si può morire eppure restare, con la stessa violenza.
Vi dico tutto questo perché sono qui.

2

È un viaggio vagamente cosmico. Il cielo è un telo nero
liscio come la seta e la luna è il taglio a cui cerco di dare
un senso. Chissà come è successo e perché quella luce
si trova proprio lì. Forse non c’è un senso ma se non
c’è un senso, almeno che ci sia una trama. No! Niente
è scritto e quello che cerchiamo lo possiamo scoprire
solo cercando. Il movimento dei miei pensieri è una
perfetta oscillazione da una punta all’altra del taglio, tra
la vetta e l’abisso, tra il sospingere e il ributtare. Voglio
andare verso lo squarcio, oltrepassarlo e vedere tutto
come per la prima volta.

Fermo la nave stellare, ho raggiunto il mio sistema
di approdo momentaneo, in questo spazio
non terrestre non sono ammesse le debolezze
umane. Penso a quello che è stato e mi annoio.
Chissà perché sono rimasta tutto quel tempo.
Tutto quel tempo vuoto pesa come se fosse osmio.
Oltre a essere pesantissimo, è altamente tossico,
mi congestiona le vie respiratorie e mi danneggia
gli occhi. Arrivo a vedere tutto nero, senza punti di
luminosità da raggiungere, senza tagli, nessuna via
di fuga, una concentrazione di buio così alienante,
il senso dell’orientamento totalmente annullato.
Faccio uno sforzo disumano e vado in fondo al
vuoto, ci scavo, ci annego, lo rendo insostenibile
e un attimo dopo ho il desiderio di riempirlo.

E subito riparto; corro a cercare ogni cosa che mi sia
nuova per trovarmi. Resta solo un ultimo, dolcissimo chissà.

3

24 ore di lavoro al giorno, su e giù per il corridoio che sembra un enorme ventre di serpente che mi
inghiotte e, lentamente, mi mastica, mi riduce in altre forme orrende prima di sputarmi nella stanza
non appena si svuota, gli ospiti escono e io mi fiondo lì per un attimo, devo essere rapido. Oggi ho
trovato un biglietto per me, lo so, diceva: LO SO
(l’ho trovato ridicolo)

Non posso fallire proprio adesso, sono in ombra da cinque su sette giorni e adesso cosa credono
di sapere? Credono davvero di sapere com’è strisciare per non far rumore, felpare i passi, aguzzare
la vista dietro le lenti scure, starsene col vento in faccia sul ponte senza poter rivolgere lo sguardo
al mare, dire meno di cento parole al giorno, non dormire mai, vivere con l’orecchio attento alle
loro stronzate, non farsi distrarre dalla continental breakfast, starsene in piscina senza mai un
bagno, sempre fuori dalla mia vita e sempre più dentro la loro. Ma cosa ne sanno. Un bel niente.

Lei ha sempre la mano del ragazzino in pugno. Oggi, per la prima volta, ha mollato la presa. La scena,
vista di lato, è questa: c’è l’espressione del ragazzino terrorizzato, perduto, fermo, la maglia del
ragazzino e i suoi capelli che si fanno muovere dal vento e lui che di quella sua mano che gli resta
appesa al braccio non sa che farsene perché forse crede sia solo un gancio, niente più di un gancio.
E invece, poco oltre, c’è lei che sorride, dimentica del legame appena reciso, verso l’altro lato.
Devo capire a chi è rivolto quel sorriso di benvenuto, la maglia del ragazzino e i
capelli si muovono, formano un flusso ipnotico, sono concentrato, inosservato,
io non dormo mai

Tutte le foto di Fotoromanzine #1 sono di Vittorio Antonacci